L’Etivaz – Gli aromi della montagna sublimati da una produzione su fuoco a legna

Un’altra esperienza che rimarrà per sempre impressa nella nostra memoria e di coloro che l’hanno vissuta assieme a noi: la visita alla produzione dell’Etivaz.

Dopo una notte trascorsa in un minuscolo quanto spartano chalet svizzero a 1000 metri d’altiudine, partiamo con le luci dell’alba verso un secondo chalet dove una famiglia di casari ci aspetta per mostrarci come avviene la produzione di questo incredibile formaggio.

Ma partiamo con alcune informazioni di base. L’Etivaz AOP è un formaggio d’alpeggio a pasta dura prodotto artigianalmente tra il 10 maggio e il 10 ottobre a partire da latte crudo non trasportato (cioè lavorato sul posto, negli chalet di montagna). Più di 2800 vacche –  che pascolano su circa 130 alpeggi (gestiti da 70 famiglie) situati tra i 1000 e i 2000 metri di altitudine – forniscono ogni giorno un latte ricco e profumatissimo che verrà riscaldato su fuoco di legna in caldaie di rame.

La stagionatura poi sviluppa gli aromi ricchi e potenti che provengono dall’ampio bouquet di erbe di cui si nutrono le vacche. Formaggio d’alpeggio per eccellenza, l’Etivaz fu il primo formaggio svizzero ad ottenere la Dop e deve rispondere a un disciplinare di produzione preciso ed esigente. Ogni anno vengono prodotte 450 tonnellate di Etivaz, che corrispondono circa a 19.000 forme, che ritroviamo poi sulle tavole della Svizzera e di tutto il mondo.

Ma torniamo a noi. Quando arriviamo nello chalet i nostri occhi ci impiegano un po’ per abituarsi alle luci basse della sala di produzione e le nostre narici vengono invase da un odore di fumo, legna bruciata e latte.

Sono circa le 7.30 del mattino e il latte munto la sera precedente è già stato scremato, aggiunto a quello del mattino e versato in una caldaia di rame. Il latte è stato quindi scaldato leggermente a 32°, il casaro ha aggiunto il caglio di vitello e ha quindi avuto il tempo di andare a fare colazione con la famiglia fintanto che il latte nella caldaia coagula. Qui nello chalet infatti vivono tre generazioni: il nonno, il figlio trentenne con la moglie (una colonna portante dell’attività) e i tre piccoli figli. Al nostro arrivo il casaro e suo figlio stanno osservando la cagliata: adesso è pronta per essere rotta, a mano naturalmente, con l’aiuto di una lira.

La cagliata viene rotta in grani piccolissimi (nel frattempo figli e nipoti si adoperano per accendere il fuoco a legna nel braciere posto accanto) e quindi la caldaia di rame viene spostata sopra al braciere acceso e questo “mélange” di cagliata e siero viene mescolato in continuazione e portato a 57°. Ne approfittiamo per fare un piccolo giro attorno allo chalet, vedere i maiali (nutriti con il siero di scarto), le celle dove vengono tenute e spazzolate con acqua e sale le forme di Etivaz per la prima settimana prima di essere portate nelle celle di stagionatura della cooperativa e conoscere un po’ meglio questa famiglia che ha fatto una scelta di vita così radicale, decidendo di trasferirsi per 5 mesi all’anno in uno chalet a oltre 1000 metri di altitudine circondato da soli pascoli e distante circa 10/15 km dal primo centro abitato.

Trascorsi circa 45 minuti, il casaro e la nuora (e noi assieme a loro) rientrano nella stanza di produzione: la cagliata ha raggiunto la temperatura di 57° ed è ora di far uscire il formaggio della caldaia.

Assistiamo incantati in rispettoso silenzio perché quello che sta avvenendo davanti ai nostri occhi ha qualcosa di magico ed ancestrale: casaro e nuora infilano una tela su un’asta che fanno scivolare sotto ai grani di cagliata e quindi – infilando le braccia nell’acqua caldissima (57°) – estraggono la cagliata e la posizionano nelle forme. Assistiamo così in diretta alla “nascita” di tre forme di Etivaz, belle fumanti davanti ai nostri occhi.

I gesti di nonno e nuora sono rapidi e sapienti e fanno sembrare naturale un’operazione che in realtà è difficilissima (e non solo per il calore dell’acqua; basti pensare che la cagliata deve essere estratta in tre parti il più possibili uguali). Le tre forme vengono quindi poste sotto pressa e verranno girate più volte al giorno fino al mattino successivo. Nei giorni successivi verranno spazzolate con acqua e sale ed entro una settimana devono esser portate nelle celle di stagionatura che le raccoglie tutte.

Qui le forme di Etivaz rimarranno fino a 20/24 mesi e il formaggio potrà – grazie alla stagionatura – sviluppare quegli aromi ricchi e potenti che lo caratterizzano e che provengono dalle erbe di montagna, l’unica base della dieta delle vacche che hanno fornito il latte per produrlo.

Ed è emozionante prendere coscienza di questo: che un pezzetto di Etivaz sulle nostre tavole non è il prodotto di un macchina robot in un laboratorio asettico ma di un processo che si perpetua da centinaia di anni grazie alla passione e alla tenacia di un piccolo gruppo di famiglie che ha deciso di dedicare la propria vita a questa tradizione. Un pezzetto di Etivaz è fatto di sveglie quotidiane alle 5 del mattino, di mucche al pascolo da mungere due volte al giorno, di condizioni meteo da affrontare, di braccia bruciate da cagliate bollenti… e noi crediamo fermamente che sia giusto conoscere tutto ciò, ricordarlo e valorizzarlo.

 

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